lunedì 19 dicembre 2016

Al Chiostro del Bramante si celebra l'amore



Il Chiostro del Bramante dedica una mostra al più complesso dei sentimenti: l'amore.

L'esposizione, intitolata “LOVE. L'arte contemporanea incontra l'amore” è stata interamente curata dal critico Danilo Eccher.



L'amore, in tutte le sue forme, romantico, passionale, trasgressivo, violento, ferito, malato, quello per se stessi o per i propri figli, è rappresentato da alcuni tra i protagonisti della scena artistica contemporanea quali, Warhol, Gilbert & George, Vanessa Beecroft e Francesco Vezzoli.





Come sempre accade alle mostre organizzate al Chiostro del Bramante, ai visitatori è richiesto un coinvolgimento attivo con le opere e gli ambienti espositivi.

Ognuno di noi è quindi invitato a lasciare una romantica traccia del proprio passaggio sui muri delle sale e a interagire con le opere fotografandole e condividendole con l'hashtag #Chiostrolove.









Infine ci sarà data la possibilità di entrare materialmente e quindi diventare parte dell'opera che chiude la mostra.
 All the Eternal Love di Yayoi Kusama è una stanza nella quale strane zucche a pois riprodotte all’infinito da specchi ci condurranno per 20 secondi in un mondo magico e surreale.



Sarà possibile visitare la mostra fino al 19 febbraio 2017.

                                                              Anna Carla Angileri

sabato 17 dicembre 2016

La più grande città al mondo costruita con i Lego è in mostra a Roma







I palazzi, i negozi, la stazione, il Luna Park e la gente che lavora o passeggia, e poi ancora la campagna con le villette e i giardini fioriti, il laghetto, e i contadini che lavorano nei campi dove svettano le pale eoliche; sembrerebbe una città come tante se non si trattasse della più grande città al mondo interamente costruita con i mattoncini Lego.







Nata da un’idea di Wilmer Archiutti, fondatore del laboratorio creativo in provincia di Treviso,
L.A.B. Literally Addicted to Bricks, la City Booming, lunga ben 15 metri per 5, è stata costruita in un solo anno con 7 milioni di mattoncini colorati provenienti proprio dalla collezione di Archiutti.

La City Lego non stupisce soltanto per l'attenzione al dettaglio e per la precisione con cui sono state assemblate le enormi costruzioni ma sopratutto per i sistemi di automazione e illuminazione; il treno infatti gira attorno alla città mentre le luci illuminano la giostrina e la grande ruota panoramica che sovrasta l'intera costruzione.











La City Lego è ospitata al Guido Reni District di Roma dove potrà essere ammirata da grandi e bambini fino al 29 gennaio 2017.

                                                                                                Anna Carla Angileri

 

venerdì 16 dicembre 2016

"The Adventures of Alice": il Paese delle Meraviglie è a Roma




Per festeggiare i 150 anni dalle pubblicazione di “Alice in Wonderland”, dato alle stampe il 26 novembre 1886, al Guido Reni District di Roma si avrà la possibilità di partecipare ad un’esperienza unica nel suo genere e vivere in prima persona le avventure raccontate nel celebre romanzo di Lewis Carroll.








I visitatori saranno condotti nella tana del Bianconiglio dove due foto rendono omaggio proprio a Lewis Carroll e ed Alice Liddle, la bambina che ispirò il racconto, per essere poi catapultati, come Alice, nel Paese delle Meraviglie.
Sui maxi schermi della sala, grandi e bambini, assisteranno ad una proiezione di 45 minuti in cui il racconto originale di Sir. John Gielgud, doppiato da Ennio Coltorti, ci farà rivivere la storia di Alice e dei suoi bizzarri compagni di avventura quali il Bianconiglio, il Brucaliffo, lo Stregatto e la Regina di cuori .














La favola sembra poi prender vita quando, passando dal misterioso buco della serratura , magari all’ora del tè, saremo proprio noi visitatori ad avere la possibilità di sederci al tavolo del Cappellaio Matto per festeggiare il Non Compleanno.








I bambini di ieri e di oggi avranno tempo fino al 19 marzo per immergersi nel meraviglioso mondo immaginato da Alice.















                                                                                                       Anna Carla Angileri

mercoledì 30 novembre 2016

Artemisia Gentileschi: Roma celebra la prima grande artista della storia

                                                
                                               
Artemisia Gentileschi: Autoritratto
Guerrieri: Maria Maddalena
Artemisia Gentileschi, l’artista e la donna, è celebrata con una grande mostra al Palazzo Braschi di Roma.

Artemisia Gentileschi: Maria Maddalena
Vissuta nel ‘600, un secolo in cui il mestiere dell’artista era ancora prettamente maschile la Gentileschi, formatasi nella bottega paterna , riuscì ad eccellere come pittrice, facendo suo il naturalismo caravaggesco.

Roma, Firenze e Napoli sono le più importanti città in cui operò ed in mostra, i dipinti del padre Orazio, di Bartolomeo Manfredi, di Simon Vouet e Giuseppe Ribera, per citarne solo alcuni, testimoniano scambi e influenze tra l’opera della pittrice e dei più importanti artisti del suo tempo.
Violentata dal collega Agostino Tassi , Artemisia trasmette una forte drammaticità compositiva ed espressiva nelle opere raffiguranti le donne; mitologiche, sante, sensuali, vittime o carnefici, esse sono protagoniste indiscusse delle sue tele.
Artemisia Gentileschi: Cleopatra
Mentre la Maria Maddalena di Guerrieri è colta in un momento di meditazione la Gentileschi preferisce rappresentare il turbamento della conversione in cui la Santa stupisce per l’intensità dello sguardo.
Artemisia Gentileschi: Cleopatra

Nelle due versioni di Cleopatra presenti in mostra l’artista riesce a rappresentare la drammaticità del momento sia attraverso toni cupi sia attraverso tonalità squillanti.






Ma è in Susanna e Giuditta che Artemisia trova i suoi alter ego.

Artemisia Gentileschi: Susanna e i vecchioni
Artemisia Gentileschi: Giuditta e Oloferne
In Susanna e i vecchioni Susanna è la vittima che mostra nel volto l’espressione impaurita al cospetto dei vecchioni infiammati di lussuria, Giuditta invece, più volte rappresentata dall’artista è la carnefice e la vendicatrice; è in particolare nella versione conservata alla Galleria degli UffIzi che la Gentileschi mostra in modo crudo e drammatico l’uccisione di Oloferne da parte delle due donne.

La mostra che apre al pubblico oggi, mercoledì 30 novembre potrà essere visitata fino al 7 maggio.

                                                                                                   Anna Carla Angileri

sabato 26 novembre 2016

Frida Kahlo: un'Operetta amorale per descrivere la "santa laica"



E' un dialogo intenso e toccante tra Frida Kahlo e la Morte, nelle vesti di uno scheletro elegantemente vestito, quello descritto da Vanna Vinci nella sua Operetta Amorale, la graphic novel che ha dedicato all'artista messicana.


Dopo la presentazione del libro alla Feltrinelli di Roma in cui la Vinci insieme a Giuseppe Scaraffia ci svela particolari inediti sulla vita della Kahlo mi accingo a leggere la biografia a fumetti della pittrice.

Frida ripercorre tutta la sua vita, dove la Morte, la Pelona, sua interlocutrice nonché fedele compagna, la affianca in ogni momento, fin da bambina, quando la poliomielite le valse l'appellativo di “Frida gamba di legno” al tragico incidente che le cambiò per sempre la vita.
 La Pelona voleva prenderla con sé ma l'urlo disperato della donna riuscì a spaventarla; la Morte però non si arrese e continuò a danzare intorno al suo letto.

Frida descrive con particolare attenzione le gioie e i dolori della sua vita; il potere salvifico della pittura,l'avvicinamento al partito comunista, l'amore romantico e adolescenziale che la legò ad Alejandro, quello passionale e tormentato ma indissolubile, che la unì al marito Diego Rivera, il "panzon" fedifrago che la tradì con tutte le “belle puttane” che lo circondavano compresa la sorella Cristina, i numerosi amanti che anche lei ebbe dalla fotografa Tina Modotti al rivoluzionario russo Leon Trotsky al fotografo Nickolas Muray (per citare i più famosi) ; perchè la Kahlo, con i suoi gioielli e i suoi abiti dai colori sgargianti e chiassosi da tehuana fece dei suoi evidenti problemi fisici e dei suoi tratti tipicamente maschili quali i baffetti e le sopracciglia folte e unite, che non tentò mai di nascondere, le sue più potenti armi di seduzione.


Quella che appare sfogliando le pagine del libro della Vinci, impreziosito dai sofisticati disegni, è l'immagine di una donna della due anime, una devastata dalla malattia, dalla disabilità, dagli aborti e dai tradimenti del marito, l'altra combattiva e fiera, che non si lascia abbattere dai drammi della vita; ecco perchè, ancora oggi, non possiamo far altro che venerare Frida come una “santa laica”.



Le ultime pagine del libro sono dedicate alla sua prima mostra personale in Messico realizzata nel '53 quando Frida, tornata al fianco di Rivera,  ormai eccessivamente indebolita, si fece trasportare con il suo letto pur di partecipare all'inaugurazione.




Ormai stanca e consapevole della sua imminente dipartita la Kahlo scrisse sul suo diario “Spero che l'uscita sia gioiosa e spero di non tornre mai più”.Il suo ultimo e decisivo incontro con la Morte si svolse il 13 luglio 1954. Le sue ceneri sono conservate nella Casa Azul di Coyoacán.

                                                                                                 Anna Carla Angileri


venerdì 11 novembre 2016

Antonio Ligabue, a Roma la mostra che racconta la sua vita e il suo dolore



Era il 1961 quando a Roma, la Galleria La Barcaccia, dedicò ad Antonio Ligabue la prima grande mostra di rilievo nazionale che lo consacrò come artista; oggi, cinquantacinque anni dopo, il pittore torna nella capitale con una personale al Complesso del Vittoriano.

Sradicato dalla sua terra, la Svizzera tedesca, e approdato nella Bassa reggiana, un luogo a lui ignoto, di cui non conosceva né la lingua né la gente, costretto ad una vita dura e difficile, si dedicò alla pittura da autodidatta.

Emarginato e schernito tanto da essere appellato Al Matt (Il matto), Ligabue, che fece dell'arte la sua
principale forma espressiva, attraverso le sue tele ci parla di sé e del suo dolore.

L'aquila che aggredisce la volpe, una leonessa che ferisce una zebra, il gufo che assale un altro volatile, e gli innumerevoli animali selvatici in perenne contrasto tra loro, protagonisti delle sue tele, non sono altro che simboli della sua personale lotta per la sopravvivenza.



A lasciarci sgomenti è però l'immagine del leopardo dalle fauci spalancate soffocato da un serpente; privato dell'aria che liberamente si respira l’animale incarna perfettamente il senso di costrizione che l'artista dovette provare durante i diversi ricoveri negli ospedali psichiatrici, i colori violenti che incendiano la tela sono l’urlo silenzioso del pittore in cerca di affetto e comprensione.





Proseguendo lungo il percorso espositivo ci troveremo di fronte ad innumerevoli autoritratti una sorta di intimo diario per immagini in cui Ligabue, mortificato come uomo e come artista, rappresentandosi ossessivamente, senza idealizzazioni ma anzi mostrando i segni della sofferenza e delle ferite della vita, intende riaffermare la sua dignità di essere umano e di pittore.

                                           



Atmosfere più serene si trovano solo nei pochi dipinti in cui rappresenta il lavoro nei campi, nelle immagini circensi e degli animali domestici che sono i suoi unici amici.

Non solo dipinti, in mostra sono presenti anche splendidi disegni, incisioni e sculture realizzate con l’argilla del Po che rivelano l’abilità di Ligabue anche nelle altre forme d’arte.

La mostra che apre oggi 11 novembre potrà essere visitata fino all’8 gennaio.


Anna Carla Angileri



giovedì 10 novembre 2016

MUSEUM OF MACHINES. DAYANITA SINGH AL MAST DI BOLOGNA



Se pensiamo all’India, ci compaiono subito nella nostra mente immagini di un paese esotico e dai mille colori intensi. Pensiamo subito al paese delle catastrofi e della povertà assoluta, influenzati come siamo da una prospettiva tipicamente occidentale e coloniale.

Rimaniamo pertanto un po’ sorpresi ad osservare le fotografie di quest’artista indiana che cerca di raccontarci un po’ del suo paese e lo fa in un modo che a noi disorienta un pochino.

Fotografie in bianco e nero che ritraggono le macchine come se fossero delle prime donne, protagonisti assoluti di paesaggi industriali a noi sconosciuti.


Lei è Dayanita Singh, una fotografa indiana che sta acquisendo una certa fama internazionale anche grazie alla sua personalità fuori dal comune e a un nuovo modo di concepire il percorso espositivo. Presenta i suoi lavori, infatti, in una maniera molto particolare: costruisce arredi, carrelli, ciò che lei chiama i suoi mobile museum, ovvero strutture che le permettono di conferire alla fotografia, sempre e ovunque, una fisionomia e una presenza inedita e significati nuovi. 

Mi interessano le architetture per la fotografia. Non si tratta di arredi, né di paraventi o pannelli divisori; le mie sono sculture. A volte le chiamo foto-architetture, a volte sculture. Quando vedo le strutture dei miei “musei” completamente vuote, penso che siano sculture. Conservano immagini, mostrano immagini, ma non sono strutture espositive, né mobili, sono opere in sé. Non abbiamo le parole per definirle.

Finora ho realizzato 9 musei. Al MAST ne presento alcuni in modo diverso rispetto al passato. Qui i musei “esplodono”. Le immagini lasciano il loro piccolo museo e si trasferiscono sulla parete, in un museo più grande. […] Qui abbiamo cercato di aprire le strutture, di creare un dialogo, di parlare più approfonditamente di possibilità concesse alle immagini. I chiodi vuoti alle pareti sono esattamente questo, possibilità per le immagini di essere raggruppate, diradate, collocate diversamente. […] Oggi, lasciando i chiodi vuoti sui muri, posso spostare le immagini, esporne cinque lasciando le altre da parte, e il giorno dopo riempire la parete. Esiste sempre la possibilità di un cambiamento”. 


Elabora quindi una forma espositiva mobile, sempre diversa perché la fotografia deve essere sempre diversa, non deve raccontare sempre la stessa storia. Le sue immagini sono in continuo movimento perchè possono avere un significato nuovo e una narrazione nuova a seconda del mutare del contesto e dell’interpretazione, del mutare delle possibilità.

A Dayanita non piacciono i limiti, non le piace il fatto che i curatori delle sue mostre le impongano un solo e unico allestimento, senza possibilità di modifica. È l’artista che deve avere voce in capitolo sulle sue foto.

Ho cercato un sistema che fosse mobile. La mobilità è molto importante per me. In India le persone non vanno nei musei, quindi siamo noi che dobbiamo andare da loro. Non mi dispiacerebbe esporre le mie foto nella vetrina di un negozio o per strada

La mostra è una selezione di alcune fotografie di Dayanita legate al mondo del lavoro e soprattutto a quello delle macchine, di cui lei rimase totalmente affascinata. Ogni macchina ha un suo fascino, una sua personalità. Non sono solo macchinari, ma tutte hanno qualcosa di emotivo, di vivo


Tutto in bianco e nero. O quasi.

Dayanita predilige l’uso della pellicola in bianco e nero perchè crea una sorta di astrazione dalla realtà, ne dà una visione più poetica. L ’india è già talmente ricca di colori che la fotografia non ha bisogno di riprodurre esattamente quello che si presenta davanti i nostri occhi. 

Il bianco e nero quindi è predominante in tutta la sua arte, tranne nel suo lavoro Blue Book, che come dice il titolo stesso è pervaso da un’intensa nuance bluastra. Perché allora in questo caso la scelta di utilizzare i colori? Beh, come ci racconta lei stessa, si è trattato di un errore.

In realtà è stato un incidente. Ho finito le pellicole in bianco e nero mentre ero in cima a una torre. E mi sono resa conto con meraviglia che la pellicola per luce diurna utilizzata nei primi dieci minuti dopo il tramonto rende ogni cosa azzurra. Anche quella era una forma di astrazione. La pellicola non ci mostra mai i colori che vediamo nel mondo reale, in fin dei conti si tratta sempre di astrazione”. 





Sono fotografie intense, non ci parlano solo di un mondo industriale, ma ci fanno vedere un’India che non avevamo ancora visto. Ci stravolgono le fotografie del suo progetto File Museum in cui ci mostra il mondo degli archivi, ambienti chiusi quasi claustrofobici, pieni di polveri, e nello stesso tempo traboccanti di storie, con i loro guardiani silenziosi che quasi si nascondono dietro tutti quegli accumuli di carta. Ci incuriosiscono i ritratti maschili di Museum of Men, con le loro espressioni a volte diffidenti, a volte confidenziali, quasi come se fossero lì per raccontarci una storia, la loro storia. E ci immaginiamo Dayanita il momento prima di scattare quelle foto…non sarà stato facile convincere quegli uomini a farsi fotografare da una donna, accettare che sia lei ad esercitare su di loro un certo potere. Non dimentichiamoci che ci troviamo sempre in India, quell’India maschilista e patriarcale che purtroppo abbiamo imparato a conoscere fin troppo bene. Non deve essere stato sempre facile per lei riuscire a farsi prendere sul serio, pensare anche solo di intraprendere questo tipo di carriera, un lavoro, diciamocelo, tipicamente maschile. 








Ma lei, lo abbiamo capito, è una personalità fuori dal comune, come la sua vita, le sue fotografie, come i suoi progetti e le sue mostre.



La mostra che presenta più di 400 fotografie dell’artista e alcune proiezioni di altri suoi lavori sarà visibile al Mast di Bologna fino all’8 Gennaio 2017.

Filomena Fortunato