venerdì 11 novembre 2016

Antonio Ligabue, a Roma la mostra che racconta la sua vita e il suo dolore



Era il 1961 quando a Roma, la Galleria La Barcaccia, dedicò ad Antonio Ligabue la prima grande mostra di rilievo nazionale che lo consacrò come artista; oggi, cinquantacinque anni dopo, il pittore torna nella capitale con una personale al Complesso del Vittoriano.

Sradicato dalla sua terra, la Svizzera tedesca, e approdato nella Bassa reggiana, un luogo a lui ignoto, di cui non conosceva né la lingua né la gente, costretto ad una vita dura e difficile, si dedicò alla pittura da autodidatta.

Emarginato e schernito tanto da essere appellato Al Matt (Il matto), Ligabue, che fece dell'arte la sua
principale forma espressiva, attraverso le sue tele ci parla di sé e del suo dolore.

L'aquila che aggredisce la volpe, una leonessa che ferisce una zebra, il gufo che assale un altro volatile, e gli innumerevoli animali selvatici in perenne contrasto tra loro, protagonisti delle sue tele, non sono altro che simboli della sua personale lotta per la sopravvivenza.



A lasciarci sgomenti è però l'immagine del leopardo dalle fauci spalancate soffocato da un serpente; privato dell'aria che liberamente si respira l’animale incarna perfettamente il senso di costrizione che l'artista dovette provare durante i diversi ricoveri negli ospedali psichiatrici, i colori violenti che incendiano la tela sono l’urlo silenzioso del pittore in cerca di affetto e comprensione.





Proseguendo lungo il percorso espositivo ci troveremo di fronte ad innumerevoli autoritratti una sorta di intimo diario per immagini in cui Ligabue, mortificato come uomo e come artista, rappresentandosi ossessivamente, senza idealizzazioni ma anzi mostrando i segni della sofferenza e delle ferite della vita, intende riaffermare la sua dignità di essere umano e di pittore.

                                           



Atmosfere più serene si trovano solo nei pochi dipinti in cui rappresenta il lavoro nei campi, nelle immagini circensi e degli animali domestici che sono i suoi unici amici.

Non solo dipinti, in mostra sono presenti anche splendidi disegni, incisioni e sculture realizzate con l’argilla del Po che rivelano l’abilità di Ligabue anche nelle altre forme d’arte.

La mostra che apre oggi 11 novembre potrà essere visitata fino all’8 gennaio.


Anna Carla Angileri



giovedì 10 novembre 2016

MUSEUM OF MACHINES. DAYANITA SINGH AL MAST DI BOLOGNA



Se pensiamo all’India, ci compaiono subito nella nostra mente immagini di un paese esotico e dai mille colori intensi. Pensiamo subito al paese delle catastrofi e della povertà assoluta, influenzati come siamo da una prospettiva tipicamente occidentale e coloniale.

Rimaniamo pertanto un po’ sorpresi ad osservare le fotografie di quest’artista indiana che cerca di raccontarci un po’ del suo paese e lo fa in un modo che a noi disorienta un pochino.

Fotografie in bianco e nero che ritraggono le macchine come se fossero delle prime donne, protagonisti assoluti di paesaggi industriali a noi sconosciuti.


Lei è Dayanita Singh, una fotografa indiana che sta acquisendo una certa fama internazionale anche grazie alla sua personalità fuori dal comune e a un nuovo modo di concepire il percorso espositivo. Presenta i suoi lavori, infatti, in una maniera molto particolare: costruisce arredi, carrelli, ciò che lei chiama i suoi mobile museum, ovvero strutture che le permettono di conferire alla fotografia, sempre e ovunque, una fisionomia e una presenza inedita e significati nuovi. 

Mi interessano le architetture per la fotografia. Non si tratta di arredi, né di paraventi o pannelli divisori; le mie sono sculture. A volte le chiamo foto-architetture, a volte sculture. Quando vedo le strutture dei miei “musei” completamente vuote, penso che siano sculture. Conservano immagini, mostrano immagini, ma non sono strutture espositive, né mobili, sono opere in sé. Non abbiamo le parole per definirle.

Finora ho realizzato 9 musei. Al MAST ne presento alcuni in modo diverso rispetto al passato. Qui i musei “esplodono”. Le immagini lasciano il loro piccolo museo e si trasferiscono sulla parete, in un museo più grande. […] Qui abbiamo cercato di aprire le strutture, di creare un dialogo, di parlare più approfonditamente di possibilità concesse alle immagini. I chiodi vuoti alle pareti sono esattamente questo, possibilità per le immagini di essere raggruppate, diradate, collocate diversamente. […] Oggi, lasciando i chiodi vuoti sui muri, posso spostare le immagini, esporne cinque lasciando le altre da parte, e il giorno dopo riempire la parete. Esiste sempre la possibilità di un cambiamento”. 


Elabora quindi una forma espositiva mobile, sempre diversa perché la fotografia deve essere sempre diversa, non deve raccontare sempre la stessa storia. Le sue immagini sono in continuo movimento perchè possono avere un significato nuovo e una narrazione nuova a seconda del mutare del contesto e dell’interpretazione, del mutare delle possibilità.

A Dayanita non piacciono i limiti, non le piace il fatto che i curatori delle sue mostre le impongano un solo e unico allestimento, senza possibilità di modifica. È l’artista che deve avere voce in capitolo sulle sue foto.

Ho cercato un sistema che fosse mobile. La mobilità è molto importante per me. In India le persone non vanno nei musei, quindi siamo noi che dobbiamo andare da loro. Non mi dispiacerebbe esporre le mie foto nella vetrina di un negozio o per strada

La mostra è una selezione di alcune fotografie di Dayanita legate al mondo del lavoro e soprattutto a quello delle macchine, di cui lei rimase totalmente affascinata. Ogni macchina ha un suo fascino, una sua personalità. Non sono solo macchinari, ma tutte hanno qualcosa di emotivo, di vivo


Tutto in bianco e nero. O quasi.

Dayanita predilige l’uso della pellicola in bianco e nero perchè crea una sorta di astrazione dalla realtà, ne dà una visione più poetica. L ’india è già talmente ricca di colori che la fotografia non ha bisogno di riprodurre esattamente quello che si presenta davanti i nostri occhi. 

Il bianco e nero quindi è predominante in tutta la sua arte, tranne nel suo lavoro Blue Book, che come dice il titolo stesso è pervaso da un’intensa nuance bluastra. Perché allora in questo caso la scelta di utilizzare i colori? Beh, come ci racconta lei stessa, si è trattato di un errore.

In realtà è stato un incidente. Ho finito le pellicole in bianco e nero mentre ero in cima a una torre. E mi sono resa conto con meraviglia che la pellicola per luce diurna utilizzata nei primi dieci minuti dopo il tramonto rende ogni cosa azzurra. Anche quella era una forma di astrazione. La pellicola non ci mostra mai i colori che vediamo nel mondo reale, in fin dei conti si tratta sempre di astrazione”. 





Sono fotografie intense, non ci parlano solo di un mondo industriale, ma ci fanno vedere un’India che non avevamo ancora visto. Ci stravolgono le fotografie del suo progetto File Museum in cui ci mostra il mondo degli archivi, ambienti chiusi quasi claustrofobici, pieni di polveri, e nello stesso tempo traboccanti di storie, con i loro guardiani silenziosi che quasi si nascondono dietro tutti quegli accumuli di carta. Ci incuriosiscono i ritratti maschili di Museum of Men, con le loro espressioni a volte diffidenti, a volte confidenziali, quasi come se fossero lì per raccontarci una storia, la loro storia. E ci immaginiamo Dayanita il momento prima di scattare quelle foto…non sarà stato facile convincere quegli uomini a farsi fotografare da una donna, accettare che sia lei ad esercitare su di loro un certo potere. Non dimentichiamoci che ci troviamo sempre in India, quell’India maschilista e patriarcale che purtroppo abbiamo imparato a conoscere fin troppo bene. Non deve essere stato sempre facile per lei riuscire a farsi prendere sul serio, pensare anche solo di intraprendere questo tipo di carriera, un lavoro, diciamocelo, tipicamente maschile. 








Ma lei, lo abbiamo capito, è una personalità fuori dal comune, come la sua vita, le sue fotografie, come i suoi progetti e le sue mostre.



La mostra che presenta più di 400 fotografie dell’artista e alcune proiezioni di altri suoi lavori sarà visibile al Mast di Bologna fino all’8 Gennaio 2017.

Filomena Fortunato

domenica 6 novembre 2016

Alle Terme di Diocleziano si celebra Jean Arp

In occasione del cinquantesimo anniversario dalla sua morte, e del centesimo dalla nascita del movimento Dada, di cui fu uno dei fondatori, Roma dedica una mostra a Jean Arp, scultore, pittore e poeta.

Cornice perfetta dell'esposizione sono le Grandi Aule delle Terme di Diocleziano che, con le loro mura millenarie creano uno splendido connubio con le opere realizzate lo scorso secolo; inoltre la scelta di questa sede vuole testimonniare l'amore di Arp nei confronti della cultura antica.


In mostra sono esposte 80 opere tra sculture, dipinti e arazzi che rivelano come l'artista, nonostante si sia avvicinato a numerosi movimenti, abbia   uno stile autonomo ed indipendente.

Le sue sculture policentriche intendono allontanarsi dalla mera imitazione della natura; come affermò lo stesso artista infatti

“Non vogliamo copiare la natura  vogliamo produrre come una pianta che produce un frutto e non riprodurre”.


Opera interessante a tal proposito è Femme Paysage, ovvero Donna Paesaggio in cui la forma umana si fonde con quelle ambientali.

Femme Paysage


L'ultima sezione della mostra è dedicata ai lavori di Sophie Taeuber moglie e artista con cui Arp collaborò.
La coppia lottò per liberare le arti minori dalla sottomissione nei confronti della pittura e della scultura; tra le opere in mostra da menzionare sono le marionette che rivelano l'originalità creativa dell'artista.

L'esposizione sarà aperta fino a gennaio.

                                                                                                                                                                                                 




                                                                                                 Anna Carla Angileri


sabato 5 novembre 2016

La videoarte approda ai Musei Vaticani con Studio Azzurro


A fine settembre i Musei Vaticani hanno presentato la Sala Studio Azzurro, un nuovo allestimento, una videoinstallazione interattiva all'interno del Dipartimento di Arte Contemporanea (curato dal 2000 da Micol Forti), che vede protagonista lo storico gruppo nato a Milano nel 1982 dall'incontro di Fabio Cirifino, Paolo Rosa e Leonardo Sangiorgi.

Per la maggior parte dei visitatori i Musei Vaticani sono identificabili, a ragione, con la Cappella Sistina, le Stanze di Raffaello o il Laocoonte, tutte opere capitali che hanno fatto la storia dell'arte e che sono simbolo, nei secoli, del mecenatismo della Chiesa di Roma.

I Musei Vaticani, giustamente declinati al plurale, sono, nella loro eterogenea complessità, la dimostrazione dell’interesse costante che i Papi hanno avuto nei secoli per l'arte, un sodalizio che nell'epoca contemporanea sembrava essersi affievolito. Con queste premesse la collezione di Arte Contemporanea, dislocata in diversi ambienti come l’appartamento Borgia affrescato dal Pinturicchio, è sicuramente una straniante e piacevole sorpresa per il pubblico medio, spesso ignaro della sua esistenza.
Sala della Collezione d'Arte Contemporanea, Musei Vaticani

Fu Papa Paolo VI Montini, in linea con l’apertura al dialogo del mondo cattolico del Concilio Vaticano II, ad iniziare questa raccolta di arte contemporanea per ricucire una frattura che sembrava insanabile, per non separare la cultura del presente dalla Chiesa. Prendendo quindi atto di questo divorzio tra l’uomo moderno e la Chiesa, questo segmento del percorso museale che i Musei Vaticani propongono, acquista un valore ben più rilevante di quel che si può pensare ad un primo approccio: in che modo l’individuo contemporaneo, guidato dai dubbi, del relativismo, segnato dalla crisi della morale e della fede, può essere in linea o in contatto con la trascendente e immutabile visione cristiana?

Proprio questa è la coraggiosa sfida ha portato i Musei Vaticani ad acquisire opere di artisti di grande rilevanza e a presentare nel 2013 alla Biennale Internazionale d’arte di Venezia il suo primo padiglione dedicato ai primi 11 capitoli del Libro della Genesi, su indicazione del Cardinal Ravasi. Il progetto si sviluppava in tre grandi sezioni tematiche: La Creazione, la De-Creazione e la Ri-Creazione.
La prima, affidata proprio agli artisti di Studio Azzurro, è oggi parte dell’allestimento permanente, riadattato in collaborazione con l’architetto Roberto Pulitani, e mette in scena la ricerca portata avanti dallo Studio sulla percezione dello spazio museale come luogo di scambio e incontro attraverso un utilizzo originale delle nuove tecnologie.
Sala Sudio Azzurro, Collezione d'Arte Contemporanea, MuseiVaticani

L’ambiente è davvero unico e suggestivo, è un ambiente “sensibile” dove l’elemento costitutivo è l’immagine immateriale, la luce, lo stimolo sonoro e sensoriale: immerso nel buio lo spettatore sperimenta la dimensione percettiva dello spazio come luogo di interrelazione tra persone, oggetti e riflessioni emozionali. Il visitatore è chiamato a sovvertire la regola del “non toccare” perché è proprio il contatto con l’opera che innesca la reazione e quindi l’emozione: quella che potrebbe ricordare una sala cinematografica, dove l’oscurità è schiarita solo dal chiarore degli schermi, ribalta la condizione di voyeur del pubblico e lo trasla nella condizione di “attore” che agisce-interagisce con le proiezioni.


In principio (e poi) si articola in quattro pannelli: in quelli laterali una comunità di sordomuti ci parla del regno delle piante e degli animali e in quello frontale uomini e donne, reclusi del carcere di Bollate, si muovono su un diaframma esile come miraggi, affacciandosi in attesa che, con il palmo della mano, li interroghiamo e ascoltiamo le loro storie.

     


Nel pannello circolare a terra è sempre la mano del visitatore che genera lo spazio, che genera l’apparire di un magma di forme luminose; come Michelangelo sulla volta della Sistina raccoglie l’intera narrazione sull'intimo e celebre gesto tra il Creatore e Adamo, nell'opera di Studio Azzurro è lo stesso gesto ad essere centrale, ad essere “principio”, perché è la mano del pubblico che attiva l’opera e libera le memorie celate dietro le fragili ma reali figure fatte di luce.

L’inaugurazione e la presenza della Sala Studio Azzurro, nel cuore del percorso di visita dei Musei Vaticani, rappresenta un evento rilevante perché segna, nello specifico, l’ingresso della videoarte all'interno della secolare realtà museale ma anche perché, in senso generale, riporta l’attenzione alla partecipazione della Santa Sede alla Biennale e quindi riposiziona in modo attivo la Chiesa sul palcoscenico culturale contemporaneo.




Sabina Colantoni

venerdì 4 novembre 2016

Van Gogh Alive, un'esperienza multisensoriale al Palazzo degli Esami

Autoriratti
Autoritratti

Trovarsi dentro un dipinto di Vicent Van Gogh; è questa la sensazione che si prova visitando Van Gogh Alive, più che una mostra un'esperienza multisensoriale.
Oltre 3000 immagini raffiguranti le opere realizzate dall'artista olandese tra il 1880 e il 1890 saranno proiettate nei maxi schermi di cui sono rivestite le sale, dal pavimento alle pareti, del Palazzo degli Esami di Roma.
Avremo la possibilità di leggere le lettere più intime, di scrutare i particolari dei dipinti e di vedere da vicino le pennellate guizzanti e nervose; ci troveremo di fronte ai mille volti inquieti e agli occhi malinconici degli autoritratti del pittore.

Teschio con sigaretta


Ci immergeremo nei colori vivaci dei Girasoli e nell'atmosfera tetra del Teschio con sigaretta.


Terrazza del caffè la sera

Notte stellata
Proveremo l'emozione di essere i protagonisti di Terrazza del caffè la sera e della Notte Stellata e il brivido di trovarci in quel Campo di grano, l'ultimo dipinto realizzato da Van Gogh prima del suicidio, in cui i corvi prendono inaspettatamente vita e volano verso di noi. 


Le proiezioni saranno accompagnate ed impreziosite dalle musiche di Vivaldi, Schubert e Bach.
Campo di grano con corvi

La mostra sarà aperta fino al 26 marzo.


                                                                                  Anna Carla Angileri

La Quadriennale d'arte torna a Roma

Dopo un silenzio lungo otto anni torna a Roma la Quadriennale d'arte arrivata alla sua 16ª edizione; la mostra è stata inaugurata il 12 ottobre al Palazzo delle Esposizioni proprio dove, nel lontano 1931, si svolse la sua prima edizione.

Quest'anno l'esposizione, divisa in 10 sezioni, ciascuna delle quali affidata ad uno o a due curatori, è intitolata Altri tempi altri miti.

Attraverso l'uso di molteplici linguaggi, dalla pittura alla scultura, dalla fotografia al video alla performance, i 99 artisti presenti in mostra, con 150 opere recenti o create per l'occasione, ci offrono la possibilità di scoprire le potenzialità dell'arte contemporanea italiana.

Ciascuna sezione approfondisce un tema:


in Periferiche si individua nel policentrismo un’originale condizione strutturale del nostro territorio che
permea anche la nostra cultura visiva.

Orestiade italiana volge lo sguardo al contesto del nostro Paese nei suoi versanti culturale, politico, economico, con una riscrittura analogica e corale di alcuni nuclei di un lavoro filmico di Pasolini.

A occhi chiusi, gli occhi sono straordinariamente aperti sonda i temi del tempo, dell’identità, della memoria, letti in continua metamorfosi all’interno della relazione tra il singolo e la collettività.

 in I would prefer not to/Preferirei di no è presentata una selezione di autori esemplificativi di un’attitudine diffusa del fare arte oggi, riconducibile a un sottrarsi, a un resistere a codificazioni identitarie.

 con Ehi, voi! si vuole proporre la ritrattistica come linguaggio tramite cui attraversare le vicende più recenti della nostra arte, per la sua capacità di esprimere una commistione tra sfera individuale e sfera sociale.

in De Rerum Rurale si pone al centro dell’attenzione la ruralità come spazio reale e speculativo nel quale descrivere e re-immaginare il sistema di relazioni tra ambiente naturale e antropizzato, anche nella sua profondità storica.

La democrazia in America invita ad approfondire alcuni aspetti della storia dell’Italia contemporanea attraverso una rilettura del pensiero di Tocqueville.

 Lo stato delle cose propone un impianto in progress nel quale la rotazione di artisti molto diversi instaura uno spazio dialettico tra le singole ricerche e tra queste e il pubblico.

in La seconda volta il nucleo di autori sono accomunati da un interesse per l’uso di materiali densi di storie
già vissute che reinterpretano in insospettabili combinazioni, secondo una poetica della trasformazione.

con Cyphoria si vuole analizzare l’impatto dei media digitali su vari aspetti della vita, dell’esperienza, dell’immaginazione e del racconto.

Entro metà novembre sarà proclamato l’artista vincitore assoluto della Quadriennale a cui andrà un premio da 20.000 Euro, e, grazie al contributo della famiglia Illy, verrà assegnato un premio di 15.000 Euro all’artista under 35 più talentuoso.

La mostra sarà aperta fino a gennaio.


Anna Carla Angileri

martedì 1 novembre 2016

Mudec: a Milano una grande mostra per conoscerre Basqiuat




Era il 1981 quando venne organizzata in Italia, e precisamente nella galleria modenese di Emilio Mazzoli, la prima personale di
Jean-Michel Basquiat; oggi, l'artista afroanmericano torna nel nostro paese con una grande mostra al Mudec di Milano.
Affascinato dai graffiti newyorkesi anche Basquiat, ancora giovanissimo, si dedica all'arte di strada, i muri della città, così come le finestre e le porte abbandonate divennero le tele su cui lasciare il suo segno; in quegli anni, insieme ad Al Diaz firmava i  graffiti con il nome di Samo – Same old shit (sempre la stessa merda).

Solo dopo l'incontro casuale con Andy Warhol   le sue opere dai muri di New York entrarono nelle più grandi gallerie internazionali.
Nelle immense tele esposte in mostra, con il suo stile primitivo, che rimanda all'Espressionismo e all'Art Brut, l'artista rappresenta le sue origini, la sua vita e il suo mondo.
Protagonisti delle opere sono quindi le sue radici afroamericane, l'energia della metropoli, così
come le sue grandi passioni quali la musica jazz, i fumetti e l'anatomia; a noi visitatori è data la possibilità di scoprire le gioie e le fragilità di questo artista morto troppo presto.


Caratteristica distintiva della sua arte è la presenza di parole e lettere che, a seconda delle esigenze, utilizza come segno grafico o come significante, talvolta le inserisce per cancellarle subito dopo; come disse Basquiat infatti “Cancello le parole in modo che le si possano notare. Il fatto che siano oscure spinge a volerle leggere ancora di più.”


Lungo il percorso della mostra a catturare l'attenzione del visitatore sarà sicuramente la serie di piatti in cui Basquiat ritrae con ironia i grandi artisti di tutte le epoche; da Cimabue a Michelangelo, da Picasso a Warhol a Dalì.
L'ultima sezione dell'esposizione, infine, non poteva che essere dedicata alle opere realizzate insieme al suo mentore Warhol.






La mostra sarà aperta fino a febbraio.

Anna Carla Angileri