Se pensiamo all’India, ci compaiono subito nella nostra mente immagini di un paese esotico e dai mille colori intensi. Pensiamo subito al paese delle catastrofi e della povertà assoluta, influenzati come siamo da una prospettiva tipicamente occidentale e coloniale.
Rimaniamo pertanto un po’ sorpresi ad osservare le fotografie di quest’artista indiana che cerca di raccontarci un po’ del suo paese e lo fa in un modo che a noi disorienta un pochino.
Fotografie in bianco e nero che ritraggono le macchine come se fossero delle prime donne, protagonisti assoluti di paesaggi industriali a noi sconosciuti.
Lei è Dayanita Singh, una fotografa indiana che sta acquisendo una certa fama internazionale anche grazie alla sua personalità fuori dal comune e a un nuovo modo di concepire il percorso espositivo. Presenta i suoi lavori, infatti, in una maniera molto particolare: costruisce arredi, carrelli, ciò che lei chiama i suoi mobile museum, ovvero strutture che le permettono di conferire alla fotografia, sempre e ovunque, una fisionomia e una presenza inedita e significati nuovi.
“Mi interessano le architetture per la fotografia. Non si tratta di arredi, né di paraventi o pannelli divisori; le mie sono sculture. A volte le chiamo foto-architetture, a volte sculture. Quando vedo le strutture dei miei “musei” completamente vuote, penso che siano sculture. Conservano immagini, mostrano immagini, ma non sono strutture espositive, né mobili, sono opere in sé. Non abbiamo le parole per definirle.
Finora ho realizzato 9 musei. Al MAST ne presento alcuni in modo diverso rispetto al passato. Qui i musei “esplodono”. Le immagini lasciano il loro piccolo museo e si trasferiscono sulla parete, in un museo più grande. […] Qui abbiamo cercato di aprire le strutture, di creare un dialogo, di parlare più approfonditamente di possibilità concesse alle immagini. I chiodi vuoti alle pareti sono esattamente questo, possibilità per le immagini di essere raggruppate, diradate, collocate diversamente. […] Oggi, lasciando i chiodi vuoti sui muri, posso spostare le immagini, esporne cinque lasciando le altre da parte, e il giorno dopo riempire la parete. Esiste sempre la possibilità di un cambiamento”.
Elabora quindi una forma espositiva mobile, sempre diversa perché la fotografia deve essere sempre diversa, non deve raccontare sempre la stessa storia. Le sue immagini sono in continuo movimento perchè possono avere un significato nuovo e una narrazione nuova a seconda del mutare del contesto e dell’interpretazione, del mutare delle possibilità.
A Dayanita non piacciono i limiti, non le piace il fatto che i curatori delle sue mostre le impongano un solo e unico allestimento, senza possibilità di modifica. È l’artista che deve avere voce in capitolo sulle sue foto.
“Ho cercato un sistema che fosse mobile. La mobilità è molto importante per me. In India le persone non vanno nei musei, quindi siamo noi che dobbiamo andare da loro. Non mi dispiacerebbe esporre le mie foto nella vetrina di un negozio o per strada”.
La mostra è una selezione di alcune fotografie di Dayanita legate al mondo del lavoro e soprattutto a quello delle macchine, di cui lei rimase totalmente affascinata. Ogni macchina ha un suo fascino, una sua personalità. Non sono solo macchinari, ma tutte hanno qualcosa di emotivo, di vivo.
Tutto in bianco e nero. O quasi.
Dayanita predilige l’uso della pellicola in bianco e nero perchè crea una sorta di astrazione dalla realtà, ne dà una visione più poetica. L ’india è già talmente ricca di colori che la fotografia non ha bisogno di riprodurre esattamente quello che si presenta davanti i nostri occhi.
Il bianco e nero quindi è predominante in tutta la sua arte, tranne nel suo lavoro Blue Book, che come dice il titolo stesso è pervaso da un’intensa nuance bluastra. Perché allora in questo caso la scelta di utilizzare i colori? Beh, come ci racconta lei stessa, si è trattato di un errore.
“In realtà è stato un incidente. Ho finito le pellicole in bianco e nero mentre ero in cima a una torre. E mi sono resa conto con meraviglia che la pellicola per luce diurna utilizzata nei primi dieci minuti dopo il tramonto rende ogni cosa azzurra. Anche quella era una forma di astrazione. La pellicola non ci mostra mai i colori che vediamo nel mondo reale, in fin dei conti si tratta sempre di astrazione”.
Sono fotografie intense, non ci parlano solo di un mondo industriale, ma ci fanno vedere un’India che non avevamo ancora visto. Ci stravolgono le fotografie del suo progetto File Museum in cui ci mostra il mondo degli archivi, ambienti chiusi quasi claustrofobici, pieni di polveri, e nello stesso tempo traboccanti di storie, con i loro guardiani silenziosi che quasi si nascondono dietro tutti quegli accumuli di carta. Ci incuriosiscono i ritratti maschili di Museum of Men, con le loro espressioni a volte diffidenti, a volte confidenziali, quasi come se fossero lì per raccontarci una storia, la loro storia. E ci immaginiamo Dayanita il momento prima di scattare quelle foto…non sarà stato facile convincere quegli uomini a farsi fotografare da una donna, accettare che sia lei ad esercitare su di loro un certo potere. Non dimentichiamoci che ci troviamo sempre in India, quell’India maschilista e patriarcale che purtroppo abbiamo imparato a conoscere fin troppo bene. Non deve essere stato sempre facile per lei riuscire a farsi prendere sul serio, pensare anche solo di intraprendere questo tipo di carriera, un lavoro, diciamocelo, tipicamente maschile.
Ma lei, lo abbiamo capito, è una personalità fuori dal comune, come la sua vita, le sue fotografie, come i suoi progetti e le sue mostre.
La mostra che presenta più di 400 fotografie dell’artista e alcune proiezioni di altri suoi lavori sarà visibile al Mast di Bologna fino all’8 Gennaio 2017.
Filomena Fortunato