Ci sono personaggi che più li guardi e più ti chiedi come
sia possibile che siano così stupefacenti,
cosi ….diciamolo pure…fottutamente
geniali, quei personaggi che scrivono la storia, a cui vorresti assomigliare un
pochino, o almeno vorresti trovarti nei loro panni anche solo per un giorno
della tua banalissima e scontatissima vita. Sono i numeri uno, le “star” per
eccellenza, possono piacere o non piacere, o li ami o li odi, ma che tutti,
tutti indistintamente sulla faccia di questa terra, conoscono. David Bowie è
uno di questi.
Io non ho mai visto un suo concerto, non ho vissuto gli anni
delle sue performance e delle sue trasformazioni migliori. L’ho conosciuto
perché una mia compagna del liceo mi parlava di questo fantomatico Duca Bianco
dai costumi stravaganti e dalla personalità eccentrica. L’ho ritrovato come
colonna sonora del libro che una volta, se avevi 16 anni, dovevi leggere
assolutamente “Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino”. E rimasi incuriosita, più
che dalla sua musica, che iniziai ad apprezzare qualche anno dopo, dal suo
personaggio, anzi, dai suoi personaggi. Nella sua carriera era passato
dall’ambiguo rockettaro col rossetto del suo primo capolavoro Hunky Dori del
1971, all’indimenticabile alieno in calzamaglia dannatamente kitsch di Ziggy
Stardust, l’uomo delle stelle, dal dandy che lasciava per strada paillettes,
trucchi e stravaganze, ma che non rinunciava al suo look sconcertante ed
equivoco, al Duca Bianco, l’aristocratico cantante “alla Sinatra”, dal pierrot
di “Scary Monster”, al raffinato soulman biondo, giusto per citarne qualcuno.
Insomma, mi ha sempre affascinato il fatto che l’opera d’arte
fosse proprio lui. Un’opera d’arte che non doveva essere mai la stessa, sempre
diversa, sempre eccentrica, sempre dannatamente geniale. Un’artista che ha
fatto della sua immagine un capolavoro.
La mostra esposta al Mambo di Bologna è un omaggio proprio
alla sua arte, in tutta la sua totalità: dai testi delle sue canzoni, alla sua
musica, dai suoi costumi alle sue performance, fino ai suoi indimenticabili
concerti (l’ultima sala varrebbe solo il prezzo del biglietto…ma non voglio
svelare nulla di più…).
In possesso di auricolari alla mano, ci si intrufola
all’interno di un labirinto fatto di contenuti multimediali e fin da subito si
viene catapultati direttamente nel suo mondo, partendo dai primissimi anni
della sua carriera, quelli della Londra degli anni 60, fino ad arrivare al suo
primo grande successo, quello che ha segnato la svolta, Space Oddity. Non
poteva certo mancare la sua indimenticabile performance di Starman a Top of the
Pops del 1972 nelle sembianze del mitico alieno in calzamaglia…tuta tra l’altro
esposta lì vicino, così nel caso ce ne fossimo dimenticati. Ogni sua epoca
viene scandita da un abito specifico: c’è il costume di Pierrot di Natasha
Korniloff per la copeertina Scary Monsters (and Super Creeps), il cappotto di
Union Jack di Alexander Mc Queen, utilizzato per la copertina del disco
Earthling, e l’indimenticabile tuta a righe di Kansai Yamamoto. E poi ancora
testi originali delle sue canzoni scritti a mani, estratti di video e
performance live come The Man Who Fell to Earth e Boys Keep Swinging, arredi
creati per il Diamong Dogs Tour del 1974.
La mostra realizzata dal Victoria and Albert Museum di
Londa, partita nel 2013 e approdata a Chicago, San Paolo, Toronto, Parigi,
Berlino, Melbourne e Groningen, è stata curata da Victoria Broackes e Geoffrey
Marsh che hanno selezionato più di 300 oggetti dall’archivio personale
dell’artista creando un viaggio nel tempo alla scoperta della sua
indimenticabile carriera. Come dicono i due curatori “Questo è l’allestimento più bello di tutte le tappe, anche grazie
all’architettura delle sale”.
Una grande autobiografia,, la prima vera autobiografia
autorizzata da uno dei più grandi geni musicali del ‘900. Sarà visibile ancora
fino al 13 Novembre nelle sale del Mambo a Bologna.
Filomena Fortunato
Filomena Fortunato